L’attualità della santità di don Enzo Boschetti
Mi presento, anche se molti di voi mi conoscono già: sono la Postulatrice di don Enzo, ossia la figura istituzionale che lo sta accompagnando, passo dopo passo, verso quella che viene definita la santità ufficialmente riconosciuta dalla Chiesa. Un cammino che ha le sue tappe: venerabilità, beatificazione, canonizzazione. Don Enzo è abbastanza vicino alla prima: il riconoscimento dell’eroicità delle sue virtù. La sua vita, nella pratica quotidiana e nella intimità del suo rapporto con Dio, nel prossimo autunno sarà vagliata dal collegio dei teologi della Congregazione delle Cause dei Santi che valuteranno il grado della sua santità di vita. Valuteranno cioè se don Enzo in vita ha vissuto in modo eroico la fedeltà al Vangelo; se, posto di fronte a delle scelte, abbia scelto sempre di seguire fino in fondo il Signore, abbia vissuto fidandosi di lui, sperando nel suo amore e nella sua misericordia, amando Gesù nei fratelli più emarginati nella verità, nella giustizia, nella umiltà. Questo fa il santo e questa è l’essenza della santità. Per parlare di santità occorre comprendere bene cosa significhi essere “santo” e chi è il “santo”. Quando si incomincia ad indagare sulla vita di un probabile, futuro santo, non si guarda mai alla grandezza delle opere che ha lasciato; non è l’essere stato un fondatore, un missionario, un predicatore, l’aver costruito ospedali, lebbrosari, orfanotrofi o aver dato vita ad una comunità religiosa, aver passato la vita nella preghiera e nella penitenza, che costituisce la santità. Essere santi significa semplicemente fare la volontà di Dio momento per momento, così come Egli ce la indica attraverso le mozioni dello Spirito Santo che parla nel nostro cuore. Essere santi significa soprattutto saper ascoltare questa voce che ci richiama, ci indirizza, ci guida; significa sviluppare al massimo le potenzialità della nostra anima, quella forza verso il bene immessa in noi con il Battesimo; ricevendo questo sacramento tutti noi siamo “santi” in potenza, siamo cioè chiamati, come ci insegna la Chiesa e come ha ribadito il Concilio Vaticano II nella costituzione apostolica “Lumen Gentium”. Santi non si nasce, lo si diventa giorno per giorno, con fatica, cercando di superare i limiti della nostra natura, del nostro temperamento; la santità, infatti, non violenta mai la natura, ma fa leva sui lati positivi del temperamento umano, anche su quelli che potrebbero essere negativi, per raggiungere il bene. Così potremmo dire che si diventa santi, nonostante noi stessi e continuando a convivere con noi stessi. Basta lasciare libero spazio alla grazia, lasciarci lavorare da lei, stare in ascolto e operare di conseguenza. In questo cammino verso la santità si vivono momenti di grazia e di gioia, ma anche momenti di lotta, di tensione e di sconfitta; quello che conta è andare avanti sempre, nella certezza che non si cammina da soli, ma sostenuti dalla grazia di Dio, il quale non ci chiede mai cose che non siano alla portata delle nostre capacità. La frequenti beatificazioni proclamate dal nostro Papa hanno questo significato: additano all’uomo di oggi modelli sempre nuovi ed attuali di santità, nei quali ognuno, con la sua storia, i suoi limiti ed i suoi slanci, possa ritrovarsi; non è un’inflazione di santità, ma una catechesi profonda, variata e mirata con la quale la Chiesa Madre e Maestra addita ai suoi figli il cammino già percorso da altri fratelli e sorelle che, come noi, hanno lottato, sofferto, gioito, lavorato per il Regno di Dio e ne sono diventati i testimoni. In questo quadro si inserisce anche la figura di don Enzo; non occorre essere già arrivati alla canonizzazione per parlare di santità; rifacendosi al discorso di prima possiamo già dire che don Enzo è stato un “santo” perché ha cercato la volontà di Dio, ha cercato di capirla nelle contraddizioni della sua vita, di seguirla con slancio, nonostante i suoi limiti umani, di vederla nei fratelli, soprattutto nei giovani disagiati che gli passavano accanto. Don Enzo ha vissuto la volontà di Dio a volte con profonda sofferenza, toccando con mano la propria umanità, fatta anche di piccolezza, di cadute, di fallimenti. Dopo molti anni di lavoro e di impegno a favore dei fratelli, degli ultimi, don Enzo scriveva nel suo Diario: “Vorrei avere più coraggio ed essere più sereno e abbandonato alla volontà del Signore, invece più vado avanti negli anni e meno sono disponibile a fare la volontà di Dio. Sì, la faccio la volontà di Dio, ma con tanta difficoltà. Mai come ora soffro per la sofferenza degli altri. Vedere una persona che soffre e non fare niente, è per me un martirio. Anche questo serve alla mia purificazione interiore”. Il Santo è l’uomo che cerca la volontà di Dio, sempre, con costanza, con immutato coraggio, con fatica, con sofferenza. Non voglio parlare del don Enzo ufficiale, del don Enzo che molti di voi hanno conosciuto personalmente e del don Enzo fondatore della “Casa del Giovane” che tutti vediamo, della quale apprezziamo la continuità ed il servizio. Vorrei invece far parlare il don Enzo intimo, il “santo” che ogni giorno, anche con sofferenza, si raffrontava con la volontà di Dio. Vorrei partire da alcuni pensieri da lui scritti a Villa S. Cuore nel luglio 1967; è un momento si silenzio e di preghiera durante il quale don Enzo si trova a tu per tu con Dio e traccia un bilancio della sua vita: il tanto amore ricevuto da Dio, la sua corresponsione; ne emerge il desiderio, o meglio, la volontà assoluta di essere solo di Dio e in questa appartenenza assoluta, senza compromessi, cercare ed amare il fratello: “Sì, Gesù, da quando ti ho trovato dall’età di 17 anni circa, qui in questa casa benedetta, ti ho sempre cercato, ma cercando anche me stesso. Ti ho sempre amato, e come potevo non farlo? Ma ho amato anche la mia gloria. Avevo e ho troppa paura di perdermi in te, di scomparire, e invece sento che la mia vita è morire, che il mio apostolato più fecondo è ritrovarti per ritrovarmi e per ritrovare coloro che hanno sete di te, o Sommo Bene”. Don Enzo, come tutti i santi, avverte l’enorme divario fra l’amore di Gesù per l’anima e la propria corresponsione; per questo in molti scritti di santi, per es. in S. Teresa d’Avila e in S. Giovanni della Croce, che furono suoi maestri di spirito, troviamo espressioni molto forti circa il proprio peccato e la vita passata, che vengono condannati con parole a volte dure: “Consideriamo la grande misericordia e la pazienza di Dio – scrive S. Teresa – che non ci sprofonda sull’istante” (Mansioni, III, 3). Santi che ai nostri occhi hanno operato meraviglie di carità, giudicano e condannano il loro operato come insufficiente, limitato, viziato dal peccato. Più un’anima si avvicina a Dio e si innamora di Lui, più ne coglie la grandezza ed avverte la propria miseria; più percepisce il suo limite e più canta la misericordia di Dio; più coglie l’Amore, più sente il limite del suo amore. “Sentivo tanto il bisogno di questi giorni di preghiera e di silenzio. Sempre ho sentito questa necessità di stare con il Signore, ma purtroppo mi lascio divorare dal lavoro e dal servizio che incalza momento per momento. Purtroppo mi accorgo che il mio è un attivismo senza anima e senza amore perché senza il Signore. È questo un male che mina alla radice tutta la mia vita sacerdotale e mi trascina continuamente a tremendi compromessi.
In questa ottica tutto è grazia e dono: “Sono tutte grazie grandi – scrive don Enzo ripensando ad alcuni avvenimenti lieti ed importanti della Comunità – che mi dicono come Dio mi perseguita con il suo Amore e con una Provvidenza sbalorditiva. Non vorrei più condurre una vita così povera e squallida di Amore. So benissimo che tutto il mio male di peccato è causato da una mancanza di amore e di vita interiore e di preghiera. Ritorno alla nostra cara Comunità con il desiderio vivissimo di impegnarmi in una vita di preghiera e di fraternità con l’aiuto del Signore Gesù e della Vergine SS. nostra Madre”. I santi sono a volte spietati nel giudicare se stessi e il loro operato; nel diretto confronto con l’Amato non hanno paura di mettere a nudo la propria miseria e il proprio limite. Davanti a Dio nella nudità della verità don Enzo scrive: “La preghiera. la preghiera sempre, continuamente, con insistenza, con forza, con grande amore, con immensa speranza, la preghiera con tutto il bagaglio della mia sofferenza, dei miei peccati, del mio avvenire, delle mie gioie. La preghiera per me è tutto, senza la preghiera sono una terribile nullità, un malvagio, capace solo di nullità. Gesù, aiutami a ritrovarti, a ritrovare me stesso, il mio peccato, la mia pace davanti a te, davanti al tuo tabernacolo, al tuo crocifisso, durante l’orazione con il tuo silenzio che riempie la mia povera anima”. “Che senso avrebbe la mia vita – si chiedeva don Enzo – se non fosse sulla lunghezza d’onda del Vangelo?”. Da questa analisi senza mezzi termini e senza pudori, senza auto-giustificazioni, rinasce il desiderio forte, ardente di sentirsi uniti all’Amato, di ritrovarlo nella profondità della propria anima, di ascoltarne la voce nel silenzio della contemplazione e della preghiera: “Perseguitami con il tuo Amore – scrive don Enzo – che io non trovi mai pace nei beni di questo fugace mondo, ma in te solo. Amarti sempre, Gesù, amarti sempre per non morire più. Sì, vorrei amare tutti, amare sempre, perdonare sempre, ringraziare sempre, confortare sempre”. “Ti chiedo, o Gesù, la sola gioia della preghiera, amarti nella preghiera, amarti nella sofferenza, amarti nel silenzio. Amarti sempre quando sarò dimenticato e disprezzato da tutti. Ti chiedo, o Gesù, la grazia della preghiera, la grazia di un profondo silenzio interiore, la grazia di soffrire quando tu soffri per i miei peccati, per tutti i peccati”. Non deve stupire questa ultima invocazione; chi ama desidera assimilarsi all’Amato e l’amore alla Croce contraddistingue i Santi; non si tratta di autolesionismo, ma di condividere il mistero della Redenzione, sentirsi vicino a Gesù che ha accettato la Croce per amore nostro; anche l’accettazione amorosa e non passiva della Croce è fare la volontà del Padre, anzi è l’atto che più assimila al Figlio. Don Enzo sentiva questa urgenza di amare Dio in concreto, aveva capito la preziosità nascosta della Croce e il valore redentivo di ogni sofferenza: materiale, morale, fisica, spirituale. Lo aveva capito a tal punto da sentire il peso delle giornate senza sofferenza, senza questa compartecipazione alla vita di Gesù, senza questo morire che diventa vita e produce Amore. Scrive: “Ancora tante amarezze perché il mio tempo è passato povero di bene e pesante di peccato. Mi sento vecchio quando la sofferenza, l’implorazione, la speranza non accompagnano il mio giorno. Senza sofferenza mi sento senza amore, senza vita, senza Dio. Gesù, aiutami a portare la Croce per sentire in me un grande Amore per Te”. E ancora: “Sono giorni di grande amarezza con i quali sto sperimentando il dolore del fallimento: se il chicco di frumento non marcisce non porta frutto. […] Non pensavo di dovere soffrire così tanto. Sembra di dover dire che più si amano i fratelli, i giovani e più si deve soffrire. Ebbene: ‘Ave Maria e avanti!’ Soprattutto con queste sofferenze sento che un po’ della vita del Signore Gesù, della sua sofferenza, della sua grazia e della sua Resurrezione entrano nella mia povera vita e l’Amore prende vita e la vita si fa amore. Grazie, Gesù!”. Nella luce dell’amore per Cristo così totale ed assoluto è la ragione dell’amore per il prossimo; quando si studiano le virtù di un Servo di Dio, si parla di carità verso Dio e carità verso il prossimo; dalla prima scaturisce la seconda; sono le due facce dell’Amore come ci ha insegnato Gesù: “Non si può amare Dio che non si vede se non si ama il fratello”. E in questa ottica di amore soprannaturale si è mosso anche l’amore di don Enzo verso i poveri, i giovani, gli ultimi: “Ho lavorato molto per i poveri – scrive nel 1977 – per i giovani disadattati, ma con quanta fragilità di amore e di purezza! Ho incontrato miserie a non finire, direi che sono stati anni presi nel vortice della miseria umana. Gesù benedetto mi ha fatto incontrare e mi ha fatto ospitare qualche centinaio di giovani martoriati dalla povertà materiale, e spirituale più ancora. Ma quanta ambiguità nel mio comportamento! Eppure Tu lo sai che li amo perché Ti amo, o Signore! […] Altre cose, Signore, vorrei fare perché vorrei amarti e farti amare sempre più, perché vorrei che tanti poveri ti amassero. […] Per Gesù, per i poveri voglio consumarmi come il grano di frumento, la semente del Vangelo. […] Gesù, aiutami. Vieni, Signore Gesù!”. I Santi però non sono statici, sono uno stimolo per noi, un invito sempre nuovo ad amare; per questo voglio concludere con uno degli ultimi scritti personali di don Enzo del febbraio 1993, qualche giorno prima della sua morte: ci lascia un interrogativo al quale ognuno di noi può rispondere nel silenzio della propria anima, davanti al tabernacolo, dove lui aveva vergato queste righe con una grafia che rivela la sofferenza fisica di quei momenti: “Gesù, Gesù umile che trovi con la tua morte in croce mille modi di sconfessarmi, con le tue atroci sofferenze in croce, aiutami a sconfiggere quella non-umiltà che si chiama autoesaltazione dell’amore. Sì. dopo tanti anni finalmente ho trovato l’Amore. Il Dio immenso, umanato, storicizzato, annichilito nell’incomprensibile e ineffabile mistero eucaristico, trova ancora tra noi, i nascosti contemplativi bramosi ed ardenti di adorazione?”. Ma domandiamoci: concretamente, come ha fatto don Enzo a farsi santo? Più volte, negli scritti di don Enzo, affiora il tema della fedeltà: “La fedeltà nelle piccole cose, vissute con intelligenza e con fede, è garanzia per un servizio promozionale e di frontiera”. Egli puntualizza che dalla fedeltà minuta e quotidiana alle cose semplici e, potremmo dire, scontate, nasce la grande fedeltà alla vocazione cristiana, alla consacrazione, al servizio, alla Chiesa: “Se le grandi fedeltà vocazionali e di scelte vocazionali sono fatte dalle piccole fedeltà di ogni giorno, in rapporto prima di tutto a Gesù Cristo, allora diventa pericoloso non attenersi fedelmente al proprio piano di vita spirituale – personale” E qui don Enzo elenca gli impegni che si possono definire “spirituali”: eucaristia, meditazione, liturgia delle ore, lettura, verifiche; un insieme di atti che si ripetono ogni giorno e che devono formare l’ossatura della vita attiva e comunitaria; atti che però possono diventare monotoni, abitudinari; atti che, soddisfatti, ci fanno sentire la coscienza a posto. Ognuno di noi sa bene quali sono le sue piccole fedeltà quotidiane, in rapporto alla propria vocazione: famiglia, lavoro, figli… quello che don Enzo dice ai Comunitari della Casa del Giovane, va bene per tutti noi. Non ci sono scuse per nessuno; anche una moglie, un marito, un giovane ha la sua regola di vita scritta in quell’insieme di piccole cose che formano il quotidiano e che ci rapportano alla fedeltà al Vangelo. Don Enzo insiste sulla necessità di vivificare queste piccole fedeltà quotidiane, di ritenerle fondamentali per la grande fedeltà alla vocazione: Non possiamo proprio sottovalutare questi mezzi essenziali alla nostra crescita di fedeltà a Cristo. Senza queste fedeltà di amore e fermezza tutto rimane epidermico e frammentario e saremmo degli insicuri e incapaci delle grandi scelte delle quali la Chiesa ha bisogno”. Sono gesti quotidiani, semplici eppure grandi, indispensabili per chi vuole vivere al passo con lo Spirito Santo, per chi vuole essere, come dice don Enzo, un “battagliero pacifico”: “È indispensabile che ogni giorno nella orazione, nella Eucaristia, con la correzione fraterna, ecc., abbiamo a ricrearci spiritualmente e vigorosamente, tentando di ricuperare il senso della fedeltà a Gesù maestro, fedeltà al nostro stile di vita, alla creatività, all’incisività, alla fermezza, all’ottimismo; essere dei battaglieri pacifici per amore che, con la grazia di Dio, sanno vedere oltre alle apparenze”. Sono le piccole infedeltà, la trascuratezza dei particolari, la leggerezza che generano “il male”, matrice di altro male, come il permissivismo prima con noi stessi, poi a livello comunitario: “Queste infedeltà cambiano il volto della comunità e dello stile di vita che il Signore ci ha dato”; dobbiamo dunque accettare fino in fondo la regola di vita secondo il Vangelo che il Signore ci ha dato attraverso il suo Spirito. Era preoccupazione di don Enzo educare al senso, si può dire: soprannaturale delle piccole cose; nella fedeltà ai gesti di ogni giorno egli vedeva attuarsi il mistero della vita di Nazareth e da questa fedeltà amorosa, costante, serena, responsabile, il Fondatore misurava il polso della Comunità: “Non metto in dubbio la buona volontà di ciascuno, ma non posso tacere le piccole cose nel senso che queste, se devo essere sincero, mi preoccupano. Mi chiedo: non è dalle piccole cose che si conosce il valore e la serietà della nostra scelta e della nostra vocazione? Come facciamo a tendere alla perfezione spirituale se non cerchiamo la perfezione nei piccoli impegni di ogni giorno?”. Come nella vita umana, nel rapporto coniugale, nell’amicizia, anche nella fraternità che forma la famiglia, la fedeltà deve nascere dall’amore; non si può e non si riesce ad essere fedeli per convenienza, per interesse o anche solo per buona educazione. La fedeltà è una delle sfumature più forti e caratteristiche dell’amore: “La fedeltà è parte della pienezza dell’Amore”. Se così non fosse si tratterebbe solo di un insieme di “gesti inutili”, anzi, dice don Enzo, sarebbe solo “schiavitù”. Essere fedeli nel piccolo significa tendere alla perfezione, farsi santi; paradossalmente è dunque molto facile diventare santi; è un esercizio quotidiano di amore e fedeltà: “La norma evangelica e vocazionale è significata da una continua tensione di perfezione: ‘Siate perfetti come è perfetto il Padre mio’. Questo vale per tutti i cristiani […]. Anche quando spolveriamo e svolgiamo tutti i lavori più umili, dobbiamo farli cercando la perfezione, che vuol dire farli con il modo dell’amore, della delicatezza, dell’attenzione. La perfezione – che vuol dire far bene ciò che il servizio esige – non sopporta la trascuratezza, la facile dimenticanza, la grossolanità. Dobbiamo fare le cose come se fossimo le ultime della nostra vita e solo per piacere al Signore e per essere di utilità al fratello. Ricordiamolo mentre stiamo lavorando e coltiviamo sempre e teneramente e umilmente la presenza di Dio. I due poli di attrazione per noi sono: amare il Signore e servire con delicatezza e premura il fratello. Tutto il resto è relativo”. Per scendere al pratico, credo che sia molto bello leggere quanto don Enzo scrive in una sua nota; ha parlato di fedeltà, amore incondizionato a Dio e ai poveri, tensione alla santità, meditazione e adorazione in termini profondi e potremmo dire mistici, ma poi, quasi a voler sintetizzare tutto questo, aggiunge: “Quando prepariamo qualche cosa come una stanza, una tavola, un vestito, l’altare della cappella, ecc., se cerchiamo la perfezione in tutte le piccole cose come ci raccomanda Gesù: ‘Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro che è nei cieli’, allora dobbiamo fare dei gesti reali di perfezione; vuol dire che dobbiamo soffermarci attentamente e osservare se quella candela è diritta, se quel vaso è preparato con buon gusto, se la tovaglia è bene al centro della mensa, se quel piccolo fiore è nella posizione giusta per dire la sua gioia a Gesù Eucaristia. Si tratta di fare delle cose con delicatezza per fare piacere al Signore e per ingentilire un po’ il nostro cuore”. Ognuno di noi può pensare alle nostre “piccolezze” quotidiane, di casa; da donna posso dire: una tavola ben apparecchiata, un pranzetto preparato con amore, la casa ordinata… Ognuno pensi per sé, come si dice. Non è una conquista facile, e don Enzo suggerisce: “Un modo pratico per raggiungerla è prima di tutto:
Don Enzo sottolinea alcune espressioni importanti: purezza e libertà di cuore; cosa intende con tali termini, tante volte ribaditi nei suoi scritti, specie in quelli a carattere personale? Possiamo dire che libertà e purezza interiore significano non “relativizzare”, non costituire una gerarchia fra gesti e impegni importanti e meno, secondo il nostro giudizio: “Non è libertà, distacco e tanto meno fedeltà al Vangelo e al Direttorio, il fatto di relativizzare o tralasciare alcuni impegni che noi abbiamo accettato. Fedeltà e libertà di cuore è fare dei gesti con amore e interiorità portandoci a Nazareth; è fare nel tempo e nel modo stabilito e con le modalità stabilite”. In sostanza “la nostra fedeltà nelle piccole cose è una persona: Gesù Cristo”. In questa ottica “ogni gesto di obbedienza è importante se viene fatto con amore e con l’intento di rivivere la vita di Gesù a Nazareth” e “ogni cosa ha un senso, anche la più piccola, se la facciamo e la viviamo nel modo giusto che le è proprio”. Fare bene ogni cosa, secondo la propria coscienza e secondo l’obbedienza; ognuno è responsabile del tutto e del proprio; può essere banale, apparentemente insignificante quanto ci viene chiesto di fare, ma costituisce la nostra piccola fedeltà: “Fare bene significa valorizzare con fedeltà i doni del Signore e non sentirci umiliati se non dal peccato e non dal fatto di non sapere fare delle cose che vogliamo noi”. Fedeltà che non significa staticità, adempimento di gesti, scelte che comunque “fissano” modi di fare; sembra che, dagli scritti di don Enzo, emerga in modo preponderante la preoccupazione che la Comunità non si barrichi dietro delle conquiste, dietro delle basi faticosamente raggiunte, dei livelli, dei parametri, efficienti quanto si vuole, ma statici; sembra proprio che don Enzo abbia paura della staticità scambiata come fedeltà. Se si è fedeli a Cristo non si può essere statici, perché si è fedeli allo Spirito e lo Spirito è vita, movimento, creatività, azione. Fedeltà allora significa amore a Cristo nella convinzione che la vita è fatta di piccole cose che vanno vivificate dall’interno e che rendono grandi e significative le nostre scelte; fedeltà è rinnovamento nella continuità; fedeltà è dono rinnovato al fratello che vive con noi e al povero che serviamo; fedeltà è non paura del nuovo e del non ancora; è sensibilità, attenzione a mantenere vivo lo spirito delle nostre scelte; fedeltà è servizio di frontiera, è flessibilità: “Ricordiamolo bene: il nostro carisma non è un modo statico di vivere la fedeltà a Cristo e ai poveri. Il nostro carisma e stile di vita si chiama flessibilità nella creatività come servizio agli ultimi con una fedeltà a tutta prova al Vangelo. Cambiare e rinnovarci ogni giorno per rimanere fedeli agli ultimi e a Cristo. Un servizio di frontiera che ogni giorno vuole attualizzarsi deve necessariamente mettersi in stato di ricevere e di rinnovamento: i poveri devono continuamente cambiarci e rinnovarci e radicarci solo nella libertà della comunità di Vangelo. Il non cambiamento è spesso comodità e insensibilità e l’insensibilità uccide lo spirito delle nostre scelte”. Ma la novità non deve esaurirsi nella smania del nuovo e dell’inedito; in fondo siamo noi i creatori di novità, con il nostro amore che vivifica dall’interno ogni gesto, con la nostra novità di vita, il nostro di servizio sempre rinnovato, la nostra perenne giovinezza nella preghiera, nella fraternità e nell’apostolato: “Proviamo a pensare che senso ha per noi: trovare la novità, la creatività; una gioia intima che comporta prima di tutto la continuità nella fedeltà feriale, e non nella smania e nella premessa dei cambiamenti e delle novità. La novità è solo Nazareth ogni giorno con amore”. Fedeltà, questa, allo stile della Casa del Giovane, ma possiamo benissimo dire allo stile cristiano, allo stile del Vangelo, caratterizzato dalla provvisorietà, dall’essenzialità, dalla condivisione, dalla povertà, dalla preghiera, dalla “furbizia di stare sempre dalla parte dei poveri”. Tale fedeltà si cementa nel ricordo costante della semplicità ed umiltà degli inizi, nella “memoria della genesi povera e clandestina dell’Opera e delle comunità”; questa memoria deve rendere più disponibili al sacrificio e più pronti a consacrare la nostra identità al Vangelo. Don Enzo collega strettamente questo “vivere la memoria” degli inizi alla identità della Casa del Giovane: parlare di identità “ha senso solo se la nostra vocazione è frutto di una scelta e si ispira continuamente a Nazareth”; parlare di futuro ha senso solo nel continuo recupero dell’ “anima semplice e umile della nostra esperienza”, perché, come il passato ha bisogno dell’impegno presente, così il cammino dell’oggi e del domani attingono dalle origini la freschezza del coraggio, della creatività, dell’imprevedibile e dell’impossibile. Ma anche noi abbiamo una memoria degli inizi: l’innamoramento reciproco, le prime fatiche di mettere su casa, la nascita dei figli, i sacrifici affrontati con amore e semplicità…. “Flessibilità nella fedeltà allo Spirito del Signore”: perché è riflettendo sul passato, è “facendo memoria del nostro carisma iniziale”, che si recupera positività e si delinea la precisa identità della Casa del Giovane; si scopre, infatti, che “la Provvidenza non ci ha mai abbandonati” e che la comunità, nella sua adesione fedele alla povertà, alla preghiera, al lavoro, alla vita fraterna, pur fra molte critiche e difficoltà, è cresciuta sostenuta dalla mano di Dio: “Lui ci ha soccorso sempre e tutto abbiamo ricevuto da Lui, poiché non avevamo nulla”. Una memoria e una proiezione nel domani che si basano su tre dinamismi irrinunciabili: “Salire verso Dio, uscendo da se stessi pregando, amando, in comunione con Lui e con i fratelli; soffrire ad imitazione di Gesù; servire in piena liberta di amore”. La memoria delle origini povere e nascoste della comunità deve poi sfociare nel canto della riconoscenza e della lode, sull’esempio di Maria e deve far sgorgare dal cuore la preghiera per chiedere a Dio il dono della vigilanza e della credibilità: “Sii vigilante per lasciarti educare da Dio e dai poveri tra i più poveri, per essere una proposta verace e vivente nella Chiesa santa di Dio. Questa è la nostra vocazione-dono in nome della quale non finire più di cantare il Magnificat, il canto della lode e della gioia”. Tutta la nostra vita di preghiera e di servizio, di fraternità e di accoglienza, di testimonianza e di provocazione è dunque ritmata da piccole fedeltà; un grande ideale basato sull’umiltà di Nazareth; un carisma, frutto dello Spirito, cementato dal sacrificio e dall’esempio ddi don Enzo e nascosto nei gesti di ogni giorno; un futuro che si spera a gloria di Dio e bene della Chiesa che si attua nelle incombenze banali della vita di famiglia; tutto però vivificato dall’interno dall’Amore e della certezza che questa carità non ha limiti di spazio, di tempo e di persona e che, nell’ economia di Dio, essa realizza la salvezza e diventa eterna ed universale: “È l’amore che vince, che battaglia, che lotta, che non si piega, che sorride alla vita, che non si stanca di cercare Dio, la Verità, la gioia del servizio, l’amore sincero e disinteressato per i poveri, il rischio e il valore straordinario della fedeltà. La fedeltà è la nostra bandiera”. Don Enzo indicava il “tempo di fedeltà” come momento privilegiato per rinvigorire questa attenzione alla santità quotidiana: “fedeltà al silenzio, fedeltà ala meditazione e alla disponibilità”; fedeltà “ad agire con amore e non per abitudine, un amore che fa piacere all’Amore”. Concludendo prendiamo alcune riflessioni di don Enzo come traccia, valida anche per noi laici, per un momento di introspezione tenendo anche conto del momento quaresimale al quale ci stiamo avvicinando: Come vivo il “senso delle fedeltà”, rispetto ai tempi che posso dare alla preghiera, gli impegni di vita di famiglia, di lavoro?
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